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di Alberto Pierucci

Seguo l'attività artistica di Renato Mores dal 1996, quando lo incontrai per la prima volta al Palazzo dei Convegni di Jesi in occasione di una sua bella mostra di dipinti e disegni, in cui mi si rivelò il talento di questo pittore lombardo venuto a stare nelle Marche e con esso l'autorevolezza della sua tecnica, che vuol dire presupposto imprescindibile per osare l'avventura dell'arte. Altre sue mostre - non molte per la verità ma tutte di alta caratura -insieme a tante proficue occasioni d'incontro, mi hanno convalidato negli anni la solidità d'impronta e di stile, la costante armoniosa bellezza delle opere di Mores, in cui il colore pulsa sempre di controllata esuberanza fissandosi su toni e timbri assolutamente inconfondibili.

In consonanza con le realizzazioni pittoriche mi si è rivelata, abbastanza presto, la spessa e insieme variegata cultura del nostro artista, che corrobora da sempre il suo impegno specifico con la passione per la letteratura moderna e contemporanea, anche straniera, e della musica.

Se da un lato l'osservazione della realtà e della natura costituiscono la fonte primaria per la creazione dei dipinti da parte di Mores, dall'altro la graduale e lunga sedimentazione degli apporti culturali, combinata inevitabilmente, ormai da anni, con una scelta di vita che lo tiene lontano da contaminazioni o lusinghe di ordine commerciale, di mode o tendenze o richiami di fatue mondanità, è il supporto semplice e composito che contribuisce al fiorire di quell'arte essenziale ma insieme densa, forte ma anche elegante, capace di sedurre. Il disegno, che per ogni grande pittore è sempre stato ed è elemento formativo, strumento fondamentale di studio e conoscenza, anche per Mores è un presupposto basilare ed un richiamo costante. Nella moltitudine dei suoi disegni, vergati con differenti mezzi e tecniche, trovi con facilità ritratti di persone, a volte fissati con pochi e veloci segni essenziali, figure di animali osservati nella realtà. Altre volte invece scopri degli abbozzi rapidi ma che si fanno ravvisare lì per lì, di ben noti capolavori, magari del Tintoretto o di Toulouse Lautrec: un po' studi e un po' amusements, sempre gradevoli da guardare. In altri casi, specie quelli a pastello, i disegni di Mores sono vere e proprie creazioni d'arte, di pari dignità rispetto agli splendidi dipinti.

Sebbene non mi sia consueto l'uso dell'iperbole nelle mie note critiche con cui indirizzo la mia attenzione, da molti anni ormai, verso opere di artisti anche di indiscusso valore e spesso celebrati dalla critica più riconosciuta, non disdegno in certi casi, quando ne ricorrono i presupposti, di esprimere il mio consenso ricorrendo ai superlativi. Il lavoro di questo artista di razza si impone appunto con i caratteri dell'eccellenza. Per questo, il tornare a parlarne dopo averne dato varie volte informazione critica sulla stampa, non solo non mi da disagio ma mi procura anzi un rinnovato piacere, assieme a quella di conoscere le sue ultime deliziose creazioni.

(DIPINTI e DISEGNI - Serra de' Conti - 2002)


...ed ancora

Nei dipinti di Renato Mores il soggetto è tratto quasi sempre da dati veri, di natura: scorci di paesaggio in prevalenza, ma anche piccole presenze oggettuali, talvolta, che per l'artista si fanno materia per nature morte. Quale che sia, comunque, il tema del dipinto, l'osservatore vi scopre sempre, rispettati, l'impianto compositivo, l'equilibrio armonico delle forme, l'intonazione cromatica e soprattutto la ricerca coloristica, cioè tutti i parametri fondamentali della vera pittura, che nella sostanza è l'unica inconfondibile protagonista di ogni opera del nostro pittore.

Sono valori che nella loro combinazione concorrono a determinare un linguaggio e uno stile, oltre a costituire una premessa seria di vera professionalità specifica. Per questo Mores, nonostante la sua rigorosa e potremmo dire severa osservanza delle fondamentali esigenze della vera arte pittorica, non si lascia però mai frenare da condizionamenti o tentazioni accademiche. La sua pittura è frutto di una personalità artistica spiccata e vigorosa, forgiata su alcuni presupposti tecnico-estetici per lui inderogabili, ma anche sull'altrettanto imprescindibile richiamo individuale per il bello creato, come espressione di un bisogno inte-riore, autentico e insopprimibile.

Quella di Renato Mores è un'arte che sgorga da una sorgente perennemente fresca e viva: quella della poesia. Ogni sua opera nasce da una spinta che gli sale dal profondo e che nel momento magico preme sulla sua tensione creativa e lui allora da vita ogni volta ad un suo nuovo "gioiello".

Mores non ama la quantità ma l'autenticità delle cose prodotte. Ogni sua creazione, pertanto, può costituirne una sicura credenziale artistica.


di Stefano Troiani

I paesaggi che Mores dipinge sono porzioni di terre e di cieli attraenti, fascinosi, misteriosi a volte del tutto mediterranei, a volte la serie dei casi squaderna la innumerevole casualità di spazi che si differenziano perché l'artista li inventa e ricostruisce in situazioni di cultura differenti o di sentimento suscitato dalla mutevole precarietà del vivere. Lo spazio è quello naturale che appartiene all'altro essere: ma l'uomo, perché qui vive, lo sente quasi un prolungamento della sua esperienza e quindi una dilatazione del suo essere. Nella pittura di Mores si ritrova il contorto itinerario del paesaggio che di epoca in epoca entra, esce, si motiva, si demotiva dalla rappresentazione pittorica subendo i condizionamenti che la filosofia, la teologia, la storia, la religiosità, la cultura inframmettono tra l'artista e la natura.

Con questo non si vuol dire altro che il paesaggio moresiano si avvale dell'esperienza pittorica della lunga tradizione, pur ispirandosi ad una sua personale poetica, ad uno specifico schema logico e psicologico di rapportarsi alla natura. Nei paesaggi moresiani, al di là dell'apparente dato naturalistico, si avvertono le tracce di una cultura che ha radici nelle più varie esperienze del passato, ma prevalenti appaiono i ritorni della passione e del sentimento romantico.

C'è ancora un po' della passione della cultura agraria rurale, quando la pittura conservava lo spessore umano dei macchiaioli, e c'è il tormento ribelle degli artisti contemporanei i quali sanno da Valery che anche le civiltà sono mortali: "anche la natura è mortale e può essere uccisa". Lo sapeva Permeke e lo sa Vespignani, lo sapevano Bartolini, Morlotti e Semeghini.

Il paesaggio di Mores si sviluppa su sedimenti di emozioni sensoriali e su riflessioni spirituali dando alla pagina pittorica empito lirico, denuncia di sofferta ribellione, sacra intima venerazione di una natura amorosa madre di vita e di misteriosi eventi.

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di Filippo Abbiati

Mores nei suo indagare pittorico ha rivisitato gli antichi. La sua lezione è arrivata da lontano dai maestri lombardi che portarono al miracolo della luce riinventata da Caravaggio ma anche dai maestri toscani e, ancora dai vedutisti Veneti.

Lento e paziente, Mores ha provato cento alchimie pittoriche. La sua tenace ricerca è cresciuta in un costante confronto con la natura, con la verità. E le sue immagini, la sua testimonianza nel quotidiano hanno raggiunto oramai pulsioni sapienti, abitate nel profondo da antiche emozioni.

Il suo colore, alle origini cupo, quasi sordo, oggi si è purificato, ha trovato metamorfosandosi da una ricerca all'altra, esiti "alti" e nuovissimi. Le sue "nature morte" hanno la serenità dei tardi meriggi morandiani. La sua luce è magia, tempo che scorre fermato nel ricordo di un istante. Poesia del nostro vivere di uomini pittata magistralmente.


di Daniela Matteucci

I suoi paesaggi sono materici ma non duri, apparendo come intagliati nella tela, densi e spigolosi di colori, vivaci come il suo sguardo; intrisi di una luce che non ha direzione, quella stessa luce che nasce come soggetto pittorico proprio nella sua terra natia. E' la luce forte e tagliente di Vincenzo Foppa, che dal nulla fa respirare i primi "notturni" della storia dell'arte. Da Foppa a Venezia: il suo Notturno dipinto nel 1988 ha tenebre e luce di luna squisitamente lottesche. Ma nella sua mezzaluna non c'è la "CI" della Lucina Brembate, e dalla destra in alto irradia un lume ovattato, tiepido, che si vela fino all'orizzonte. Dai quadri di piccolo formato della fine degli '80 Mores di recente arricchisce l'amata fredda cromia (il verde smeraldo, l'azzurro cobalto) del viola intenso, che irrompe come nota altissima, dell'ocra terroso e perfino dell'arancio squillante, che entra quasi con violenza nel cristallo delle stesure compatte.

Tecnica lavorata la sua , trattata, meditata, che parte dalla struttura giottesca e tende alle magistrali soluzioni di Cézanne, nel perfetto, lirico geometrismo della Montagne Sainte-Victoire (1904-06), in quella ricerca che partì da La maison du pendu À Anvers del 1873 e che giunse alla progressiva "solidificazione" prospettica e spaziale.

Mores la evidenzia nelle calme simmetrie cromatiche, nelle corrispondenze dei rilievi collinari, nelle trasparenze d'alabastro dove dorsi d'argilla si aggrappano a duri e inospitali pendii.

In Tramonto a Frasassi , del 1990-93, i raggi solari vengono stilizzati all'unisono con l'atmosfera, creando un crescendo sinfonico che si raccorda alle estive ambientazioni di van Gogh. Del resto, l'artista medita di frequente sulla stagione ottocentesca, sulle libere ambientazioni en plen air , sulle novità di fine secolo; fissa il palpito di questi paesaggi attraverso una pittura che riesce a trattenere il sentimento più intimo della natura, rivelandone anche atavici e reconditi segreti, storie, leggende.

E il gioco dei verdi, dei cenere, degli azzurri diventa perfino caldo, come il mare soto il sole. La preparazione, l'appunto, lo schizzo, i disegni in acquerello, in tecnica mista, a carboncino, creano compattezze filamentose eppure decise, come motivi tessuti, mentre il pastello vira la luce immolandola , per dirla con D'Annunzio , per l'eternità .

Mores dipinge gli animali come d'azzurro e le città di color rosso come scrisse Vasari a commento della pittura di Paolo Uccello. Ma a cinquecento anni di distanza, ora, senza più confondere la fiaba tardogotica alla geometria rinascimentale per approdare con decisone a un intaglio luminoso, solido eppure delicatissimo, come raffinato prodotto di commesso fiorentino.

(DIPINTI E DISEGNI DI RENATO MORES – Frasassi - 1998)

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